Con la sentenza n. 20686 del 22 luglio 2025, la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – ha fornito un chiarimento importante in tema di risarcimento del danno nei contratti a tutele crescenti, previsti dal D.Lgs. n. 23/2015. Secondo la Suprema Corte, quando un licenziamento è dichiarato illegittimo ai sensi dell’articolo 2, comma 1, del decreto, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al dipendente un’indennità non inferiore a cinque mensilità dell’ultima retribuzione utile.

Il principio vale anche se il lavoratore, dopo il recesso, abbia trovato un nuovo impiego prima del decorso dei cinque mesi. In altre parole, la soglia minima del risarcimento resta intangibile, indipendentemente dal cosiddetto aliunde perceptum, ossia dalle somme eventualmente percepite dal lavoratore a titolo di nuova retribuzione.

La Corte ha sottolineato che l’indennità prevista dal regime delle tutele crescenti non costituisce un risarcimento strettamente commisurato al danno effettivo, ma una misura forfettaria e predeterminata per legge, volta a garantire certezza e uniformità applicativa. Di conseguenza, l’eventuale reddito percepito nel periodo immediatamente successivo al licenziamento non può incidere sulla misura minima stabilita dalla norma.

La pronuncia, destinata ad assumere rilievo pratico nei contenziosi in materia di licenziamento illegittimo, riafferma l’impostazione già seguita da parte della giurisprudenza di merito: il limite minimo di cinque mensilità costituisce una tutela inderogabile, che non può essere ridotta neppure in presenza di un nuovo impiego o di altri redditi conseguiti dal lavoratore nel periodo successivo al recesso.